“Montagne di cadaveri come effetto di bombe atomiche, scene che evocavano l’olocausto. Fu di una potenza inaudita la scossa sismica del 26 dicembre 2004. Il numero delle vittime dello tsunami saliva di minuto in minuto, impossibile tenere il conto ma avevamo un compito: dare un’identità a quei corpi”: è il ricordo di Carlo Maria Oddo, medico legale dell’Arma dei Carabinieri, oggi generale di Brigata, inviato a Phuket per identificare le vittime italiane.
Era la mattina di Santo Stefano di 20 anni fa quando al largo di Sumatra, nell’Oceano Indiano, avvenne un terremoto di magnitudo 9,1, il più violento di questo secolo. Seguì uno tsunami con un muro d’acqua alto fino a 30 metri. “Arrivarono task force da tutto il mondo. Quando noi entrammo nella città di Phuket la trovammo distrutta e impastata di fango, soprattutto il litorale, sembrava bombardato. L’unica cosa che stava in piedi era una serie interminabile di cartelloni con le foto delle vittime.
Il governo thailandese – racconta Oddo – aveva fotografato i cadaveri e li aveva associati ad un numero appeso al loro collo. Si erano affrettati, prima che diventassero irriconoscibili, valutando anche la tragica soluzione delle fosse comuni. Presto avremmo scoperto che le vittime dello tsunami sono state forse 300.000. Come seppellirle tutte? Come identificarle, come onorare la loro memoria? E’ così importante per le famiglie salutare per l’ultima volta quel corpo. Senza quest’ultimo commiato la morte, oltre ad essere crudele, diventa inquietante”, furono i pensieri di allora, raccontati da Oddo anche nel libro intitolato con il nome di un tempio ‘Krabi. Il segno dello tsunami’. Era il periodo delle vacanze natalizie e lo scenario era irreale. La Farnesina stimava più di 700 italiani dispersi.
Partì così il lavoro di riconoscimento attraverso il Dna: i parenti delle persone coinvolte erano chiamati ad individuare i loro cari dalle foto e a portare oggetti come spazzolini da denti e pettini, per confrontare il Dna con i campioni prelevati dai cadaveri e inviati con il ghiaccio secco in Italia. “Non era un lavoro semplice, complicato dal rischio di epidemie ma – ricorda Oddo – non c’era altra strada”.
Lo scenario agghiacciante gli fece tornare in mente “le scene dell’olocausto, quelle riprese in bianco e nero che avevano scioccato il mondo. Montagne di cadaveri, il senso terribile e letterale dello sterminio di massa”. Ogni tanto una fede nuziale, una maglietta, un tatuaggio ricordavano la vita passata, anche dei bambini. Tra le tante difficoltà incontrate ci fu la contesa di uno stesso cadavere tra una famiglia italiana e una russa. “Prendevamo i corpi e li depositavamo sul pavimento. Occhi sbarrati e denti digrignati ci gridavano in faccia l’orrore di quell’onda. Facemmo oltre 600 identificazioni e altrettante formule dentarie identificando 52 vittime”, ricorda ancora il medico legale.
“I tre, quattro giorni della nostra spedizione erano diventati una quarantina. Una fretta disumana tagliava le emozioni nel momento stesso in cui nascevano. Io non avevo esperienza in odontoiatria forense ma imparai molto dagli israeliani”, spiega ancora. L’autopsia è un momento sacro. Oddo lo associa a quel velo di marmo del Cristo della cappella di Sansevero a Napoli. “Sembra sul punto di essere sollevato, un velo che separa la vita dalla morte. L’esperienza dello tsunami – conclude – ci ha cambiati profondamente. Cosa resta? L’amore per la vita”.
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