Quando il sindaco disse no (per conto della madre) ad Harry Potter: Zorhan Mamdani aveva 14 anni quando a Mira Nair fu chiesto di dirigere il quarto episodio cinematografico della saga sul piccolo mago di Hogwarts e lei, con un occhio di riguardo al figlio che aveva imparato a leggere sui romanzi di J.J. Rowling prese l’offerta in considerazione. “Era Warner Bros. a farsi avanti. Avevano avuto un enorme successo con Harry Potter 3 di Alfonso Cuaron e magari avevano pensato di usare l’intera coalizione mondiale arcobaleno per fare Harry Potter 4”, ha detto la regista di Salaam Bombay, Mississippi Masala e Monsoon Wedding, quest’ultimo film girato in 30 giorni nel nativo Punjab per il quale fu la prima donna indiana a vincere nel 2001 il Leone d’Oro a Venezia. Mamma Nair in realtà non aveva la minima voglia di imbarcarsi in quel film: stava preparandosi a girare L’Omonimo – The Namesake, tratto dall’omonimo romanzo di Jhumpa Lahiri.
“Avevo da poco perso mia suocera, che era stata una madre per me, e quella morte inattesa, dovuta a un errore medico, mi aveva stravolto. Ero immersa in questa malinconia, e questo mi aveva ispirato a prendere in mano il romanzo della Lahiri in cui lei scrive della terribile tristezza di perdere un genitore in una terra straniera”. Mancava un mese alle riprese quando arrivò l’offerta di Harry Potter. “Non sapevo veramente che fare. Così chiesi a Zorhan e lui mi disse: ‘Mamma, molti bravi registi possono fare Harry Potter ma solo tu puoi girare L’Omonimo”.
Per la Nair, che alla vigilia della vittoria del figlio nelle elezioni di New York si è definita “la producer del nuovo sindaco”, fu “una liberazione”. Harry Potter e il Calice di Fuoco uscì nel nel 2005, diretto da Mike Newell di Quattro Matrimoni e un Funerale.
L’Omonimo, con Irrfan Khan e Kal Penn, debuttò nel 2006 (nel 2007 in Italia) tra gli applausi della critica: “La storia di immigrati in ascesa sociale, divisi tra tradizione e modernità mentre vengono assorbiti nel crogiolo americano, è stata raccontata in moltissimi film. Questa versione è delicata e compassionevole. Il desiderio di radici di questi indiani della classe media, sradicati e spaesati, dona al film una profonda tensione emotiva, un sottotono malinconico che accompagna l’opera senza mai scadere nel melodramma”, scrisse all’epoca il New York Times.
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